Di questa pasta credo di aver sentito sempre parlare, ma ero già adulta quando la provai per la prima volta. Per lungo tempo fu vittima del luogo comune legato alla sua origine popolare che la riduceva alla stregua di ‘cibo per cavalli’, considerata poco digeribile e perciò consumata di rado. Per assaggiarla ho dovuto aspettare che passasse la furia distruttiva degli anni Ottanta: l’esasperato consumismo tipico di quegli anni portava a guardare con disprezzo qualsiasi cibo avesse avuto una connotazione pauperistica. Occorrerà la metà degli anni Novanta per cominciare a guardare con occhi diversi alla storia del cibo e alla natura. Anche il destino di questa pasta ha seguito la stessa parabola.
La Struncatura è una pasta nata in seno agli usi civici e alle abitudini alimentari dei lavoratori dei mulini. Deve il suo nome all’analogia tra la materia grezza della sua composizione farinosa e la segatura, detta appunto in dialetto Struncatura (il residuo dello stroncare, del tagliare un tronco). Sulla Struncatura aleggiano molti miti, costruiti intorno ai concetti di povertà e durezza. Ai lavoratori dei mulini era permesso raccogliere la farina che cadeva a terra durante le operazioni di trasporto e manutenzione. E’ facile immaginare che nel trasporto dei sacchi gli operai gettassero a terra quanta più farina possibile e di natura diversa: talvolta integrale, talvolta di segale, di grano duro e tenero, con diversi gradi di macinatura. Va da sé che nell’operazione gli operai raccogliessero dal pavimento, con grossi scoponi, anche impurità, residui di terra o altro, da cui la radice delle leggende sul colore scuro della pasta e sulla sua non commestibilità. Come insegna Piero Camporesi, lontani dall’abbondanza alimentare, in periodi scarsità, non si andava molto per il sottile. Tutte le farine e le materie residue così raccolte venivano messe insieme e impastate con la sola acqua, direttamente dal mulino. Poi si tirava la sfoglia con un matterello e le si dava la forma di semplici tagliatelle. Non a caso questo prodotto è rimasto prerogativa delle attività dei mulini nella Piana di Gioia Tauro.
Questa narrazione serve a spiegare solo l’origine di una pasta ormai entrata nel mito della tradizione alimentare calabrese. Le cose sono poi andate diversamente a partire dal boom economico. Oggi esistono piccoli pastifici moderni che producono Struncatura di alta qualità. Molte meraviglie del gusto hanno avuto origine nella miseria più dura e poi lentamente si sono trasformate in eccellenze del territorio.
La pasta si può condire in tanti modi, ma quello più diffuso è un sugo rustico molto semplice e ‘croccante’. Ci vogliono delle olive (meglio se piccole e saporite, nere o verdi, come quelle in salamoia della Piana di Gioia Tauro), che vanno triturate insieme ai capperi sotto sale, precedentemente dissalati. Dopo aver fritto gli spicchi d’aglio a pezzetti nell’olio, aggiungere il trito misto di olive e capperi e lasciar cuocere a fuoco allegro. Quando il soffritto è cotto, fino al limite della croccantezza, aggiungere i pomodorini. D’inverno, anticamente, si utilizzavano i pomodorini a scocca che sul finire dell’estate, ancora verdi, si appendevano composti a forma di grosso grappolo d’uva: così maturavano lentamente e si conservavano per tutto l’inverno.
Far cuocere il sugo per un altro quarto d’ora e infine aggiungere 2-3 acciughe sotto sale e una punta di peperoncino a piacere. Nel frattempo, cuocere in una pentola capiente in ebollizione la Struncatura e levarla poco meno che al dente. Metterla nella padella e ultimare la cottura sul fuoco nel sugo aggiungendo acqua di cottura, come si fa per il risotto, senza mai farla asciugare troppo. Servire caldissima.
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