Frittata con code di cipolla di Tropea IGP e guanciale calabrese
Avevo cominciato da poco la prima media a Palmi, distante solo per qualche chilometro dalla mia Seminara, in Calabria.
La scuola era questione serissima in famiglia: bisognava frequentare solo le migliori. Così cominciai ad alzarmi all’ alba. L’autobus, uno di quelli blu negli anni ’70 delle Ferrovie Calabro-Lucane, faceva una sola corsa alle sette del mattino, e una sola corsa al ritorno, molto tardi, che arrivai a casa intorno alle due del pomeriggio. Quel giorno, rincasando, non vi trovai nessuno. I miei erano sotto gli ulivi, presi a gabella, una sorta di affitto del frutto, ripagato in parte con una riserva d’olio ai proprietari del fondo, una pratica ancora usuale in quelle terre di antico latifondo interamente ricoperte di ulivi. Fu certamente per necessità, ma ancor più per diletto, per piacere segreto del dono, anelito nutrito da ogni cuoca, che mi cimentai nella preparazione di una frittata. L’avevo vista fare tante volte e ci provai, con la fretta di veder compiuto il piccolo gioco. In quella stagione le code di cipolle di Tropea, Scalici nella parlata locale, sono appena spuntate. Propriamente le code di cipolla sono una specie di germoglio della messa a dimora del bulbo vecchio. Non sono il frutto del seme, che invece si coltiva in primavera e dà origine alla cipolla vera e propria, con una base sferica, ma cipolle sottili con la base dalla sezione oblunga.
Partendo dalla cima, tagliai tre code di cipolle a rondelline e le misi a friggere in tre cucchiai di olio, dopo averle salate. Tagliai, con una certa difficoltà, un centinaio di grammi di guanciale di maiale nero al peperoncino – in cucina ce n’era sempre uno appeso – e lo feci friggere insieme alle code di cipolla fino a completa doratura. Nel frattempo, avevo preparato il battuto di quattro uova, leggermente salato e pepato, che al momento giusto versai sulla frittura di cipolla e guanciale, facendolo addensare da un lato.
Fu molto difficile girarla, la prima volta tutto è difficile, così alla fine la feci scivolare su un piatto e la rivoltai in quel modo.
La scuola era questione serissima in famiglia: bisognava frequentare solo le migliori. Così cominciai ad alzarmi all’ alba. L’autobus, uno di quelli blu negli anni ’70 delle Ferrovie Calabro-Lucane, faceva una sola corsa alle sette del mattino, e una sola corsa al ritorno, molto tardi, che arrivai a casa intorno alle due del pomeriggio. Quel giorno, rincasando, non vi trovai nessuno. I miei erano sotto gli ulivi, presi a gabella, una sorta di affitto del frutto, ripagato in parte con una riserva d’olio ai proprietari del fondo, una pratica ancora usuale in quelle terre di antico latifondo interamente ricoperte di ulivi. Fu certamente per necessità, ma ancor più per diletto, per piacere segreto del dono, anelito nutrito da ogni cuoca, che mi cimentai nella preparazione di una frittata. L’avevo vista fare tante volte e ci provai, con la fretta di veder compiuto il piccolo gioco. In quella stagione le code di cipolle di Tropea, Scalici nella parlata locale, sono appena spuntate. Propriamente le code di cipolla sono una specie di germoglio della messa a dimora del bulbo vecchio. Non sono il frutto del seme, che invece si coltiva in primavera e dà origine alla cipolla vera e propria, con una base sferica, ma cipolle sottili con la base dalla sezione oblunga.
Partendo dalla cima, tagliai tre code di cipolle a rondelline e le misi a friggere in tre cucchiai di olio, dopo averle salate. Tagliai, con una certa difficoltà, un centinaio di grammi di guanciale di maiale nero al peperoncino – in cucina ce n’era sempre uno appeso – e lo feci friggere insieme alle code di cipolla fino a completa doratura. Nel frattempo, avevo preparato il battuto di quattro uova, leggermente salato e pepato, che al momento giusto versai sulla frittura di cipolla e guanciale, facendolo addensare da un lato.
Fu molto difficile girarla, la prima volta tutto è difficile, così alla fine la feci scivolare su un piatto e la rivoltai in quel modo.